L’atleta che svolge attività pericolosa accetta il rischio di infortunarsi

di Silvia Nutini e Alessia Boldrini

Un giocatore di basket professionista, infortunatosi gravemente al tendine di Achille sinistro durante una gara, dopo numerosi interventi chirurgici e riabilitativi, è stato costretto a ritirarsi dall’attività sportiva.

L’atleta agiva ex art. 2087 c.c. nei confronti della società sportiva suo datore di lavoro, descrivendo nel ricorso le modalità dell’infortunio, avvenuto “correndo durante un’azione di gioco”; tuttavia, omettendo di esporre quale fosse il comportamento datoriale fonte di responsabilità.

Rigettato il ricorso in primo grado, in appello l’atleta deduceva gli obblighi di sorveglianza sanitaria a carico della società sportiva previsti dalla L. n. 91/1981 (“Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti”), in particolare l’art. 7 sulla tutela sanitaria. La Corte di appello confermava la sentenza di primo grado in quanto, nel ricorso introduttivo, l’atleta non aveva mai fatto richiamo al tipo di obblighi specifici di sicurezza sul lavoro o agli obblighi generici di diligenza o prudenza che il datore di lavoro sportivo avrebbe violato e che sarebbero stati in nesso causale con l’incidente; neppure aveva dedotto l’omessa sottoposizione dell’atleta/lavoratore a controlli medici o che questi fossero stati superficiali o errati o che, nonostante fosse emersa da questi controlli l’usura del tendine, il datore avesse consentito comunque al dipendente di giocare.

L’atleta proponeva ricorso in Cassazione dolendosi del mancato accoglimento dei motivi dedotti in appello per avere egli solo in secondo grado indicato la normativa asseritamente violata, e cioè l’art 7 della legge anzidetta (trattandosi, tutt’al più, di diversa qualificazione dei fatti).

A tal proposito, la Suprema Corte di Cassazione civile sez. lavoro, ha ribadito che spetta al lavoratore l’allegazione dell’omissione commessa dal datore di lavoro nel predisporre le misure di sicurezza – suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica – necessarie ad evitare il danno. In caso contrario, la responsabilità del datore scadrebbe in responsabilità oggettiva.

La Suprema Corte ha ragionato facendo riferimento al particolare contesto agonistico: “In ogni caso, l’obbligo incombente ex art. 2087 c.c., sul datore di lavoro va parametrato alle particolarità del lavoro ed alla natura dell’ambiente e dei luoghi in cui il detto lavoro deve svolgersi. E’ evidente, infatti, che determinati e specifici lavori comportano per loro natura dei rischi per la salute del lavoratore, e tra questi va annoverato lo svolgimento di una attività sportiva agonistica, tenuto conto della pericolosità insita nel suo svolgimento e dei rischi ineliminabili […]. Rispetto a detti lavori – importanti una necessaria accettazione del rischio alla salute del lavoratore, legittimata sulla base del principio del bilanciamento degli interessi – non risulta, pertanto, configurabile una responsabilità ex art. 2087 c.c., del datore di lavoro, se non nel caso che detto imprenditore con comportamenti specifici, da provarsi di volta in volta da colui che assume di essere danneggiato, determini un aggravamento di quel tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell’attività che il lavoratore è chiamato a svolgere (Cass. civ. sez. lav., n. 8297/2015).

Safety Focus – Anno II – Numero 08 – 4 Giugno 2015